Nell’AT l’atmosfera di speranza é impregnata dalle promesse di Dio. Con Abramo inizia la storia della speranza biblica. Fedele alla Parola di Jahvè, egli partì senza sapere dove andava e il suo sacrificio é esempio di speranza perfetta nella promessa dell’onnipotente (Gen 22).
Nel cammino del deserto, né idoli, né templi, né ricchezze illuminarono il viaggio del popolo di Israele. L’unica forza e sicurezza era Dio e il suo unico merito l’avere sperato con fiducia. Quando le tribù di Israele ricevettero la terra e in essa le nuove esperienze di vita sedentaria, passarono a comprendere la loro esistenza attraverso il ricordo della storia e si resero conto che nel dono della terra stava l’espressione visibile della fedeltà di Jahvè.
Il re Davide sente di essere sul cammino della piena realizzazione della promessa e la esprime nella sua preghiera: «davanti a te siamo passati da stranieri e pellegrini come tutti i nostri padri» (1Cor 29,15), dimensione presente anche tra i cristiani, che si sentivano come «stranieri e pellegrini in questa terra» (Eb 11,13), condizione che richiede un peregrinare nella speranza (Eb 11,1), verso la vera patria che è nel cielo (Fil 3,20) e nell’incontro definitivo con il Cristo risorto (Fil 1,23; 2Cor 5,8).
Quando i cristiani sono presentati nello stato di pellegrini, si sa che questa peregrinazione ha a che vedere con una difficile e dolorosa esistenza, ma al tempo stesso un’esistenza aperta alla speranza. La speranza qualifica la peregrinazione terrena ed é proprio del pellegrino camminare con l’occhio continuamente puntato verso la meta (Fil 1,6; 3,20; Eb 11,13-14). Per i Vangeli sinottici, il tema della speranza é intimamente legato al tema del Regno annunciato da Gesù, un Regno che é un «già e il non ancora» (Mt 6,10; Mc 14,25), in attesa della sua piena realizzazione.
Per Paolo, ciò che pone i cristiani in “situazione di speranza” é la morte e la resurrezione di Gesù (1Cor 15,20-22; Rm 6,3-11) e per questo egli parla della gioia nella speranza (Rm 12,12). Nella lettera di Giacomo e nella prima di Pietro, il tema della speranza continua con una forte connotazione del tempo presente, «tempo di prova e di attesa» e con ripetuti appelli alla pazienza in vista della ricompensa futura (Gc 5,7-9; 1Pt 1,4-13; 4,12-19), «pronti a rispondere a chiunque vi chieda della speranza che è in voi» (1Pt 3,15).
Il cristiano trova in Cristo la propria speranza: «Cristo Gesù, nostra speranza» (1Tm 1,1), cioè il senso ultimo che illumina tutte le realtà e le relazioni. In questo senso, la speranza cristiana è un potente serbatoio di energie spirituali, è elemento dinamizzante che si fonda sulla fede nel Cristo morto e risorto. La vittoria di Cristo sulla morte diviene la speranza del credente che il male e la morte, in tutte le forme in cui si possono presentare all’uomo, non hanno l’ultima parola.
Pietro afferma che i cristiani affrettano, con la loro attesa, la venuta del giorno del Signore (2 Pt 3,12).
La particolare visione cristiana del tempo fa del credente «un uomo che ha speranza» (1Ts 4,13), «che attende il Cristo» (Fil 3,20; Eb 9,28) e da ciò che il Cristo in tale futuro opererà.
Per tutti i pellegrini biblici, come pure per i migranti di ogni tempo, la speranza che li sostiene genera un’illimitata fiducia nella Provvidenza Divina. Il Dio che prevede è il Dio che si prende cura del suo popolo. Gesù esorta i nuovi viandanti a non angustiarsi per il domani (Mt 6,34), si rivolge ai discepoli per invitarli a vivere con integrità la loro relazione di fede nel Padre celeste e li esorta a non lasciarsi dominare dalla preoccupazione ossessiva del mangiare e del vestire, perché questa poca fede non rende giustizia alla generosità e potenza di Dio.
La Provvidenza è collegata con il futuro. Cosi come la grazia, la provvidenza non annulla la libertà, la creatività, le condizioni della natura umana e neanche disprezza le piccole opere. La libertà e la responsabilità dell’uomo non sono minacciate o sottratte dall’azione della provvidenza.
L’esperienza personale della Provvidenza, tratto gioviale e discreto della presenza materna di Dio, una volta provata dalla fame e dalla nudità, dalla persecuzione e dalla spada (Rm 8,31ss), provoca il desiderio di essere provvidenza per gli altri, si trasforma in misericordia, facendosi tutto a tutti. E all’uomo di fede non resta altro che aprirsi con fiducia alla volontà di Dio, anche quando sembrano assenti i motivi per sperare e la sua richiesta sembra non trovare risposta.
Persone e comunità che, nella fede riflettono sulle proprie esperienze migratorie, facilmente si convincono che la persona é guidata più dalla Provvidenza di Dio che dalle proprie personali abilità. Non raramente individui e comunità confermano di essere giunti a mete impreviste a cui non pensavano di arrivare. Ogni migrante sincero giungerà facilmente a concludere con Tobia, che veramente la vita dell’uomo è nelle mani di Dio. E la riflessione cristiana va molto al di là della lezione di Tobia, perché il cristiano sa di poter contare, nel suo cammino, in Colui che si è fatto Via, Verità e Vita (Gv 14,6).
L’uomo che crede e cammina umilmente alla presenza di Dio (Mq 6,8), avrà sempre fiducia nella Provvidenza. La storia, spesso tessuta di dolori anonimi, solitari, disumanizzanti, che disprezza gli sforzi e la dedizione umana, è anche storia della Provvidenza, della instancabile speranza che si trasforma in lotta, perseveranza e atto di abbandono fiducioso nelle mani di un disegno maggiore.
La speranza, la prima virtù dell’homo viator nella sua peregrinazione terrena, mantiene l’uomo in cammino verso la meta, in posizione eretta, lo rende capace di futuro e pone nei cuori le più segrete certezze. Non si può vivere senza sperare! «L’uomo ha bisogno di una speranza che vada altre» (SS, 30). La speranza permette alle persone di mantenersi ferme in mezzo alle avversità della vita: «noi ci gloriamo anche nelle tribolazioni» (Rm 5,3).
Noi abbiamo bisogno delle speranze che giorno per giorno, ci mantengono in cammino. Ma senza la grande speranza esse non bastano. Questa grande speranza può essere solo Dio, che abbraccia l’universo e che può proporci e donarci ciò che, da soli, non possiamo raggiungere. Proprio l’essere gratificato di un dono fa parte della speranza. Dio è il fondamento della speranza. Solo il suo amore ci dà la possibilità di perseverare con ogni sobrietà giorno per giorno, senza perdere lo slancio della speranza, in un mondo che, per sua natura, è imperfetto (SS, 31).
Nell’esperienza spirituale la speranza cristiana è aperta all’iniziativa divina che dà pienezza alla realtà personale, sociale e cosmica; possiede un carattere globale, fa riferimento a questo mondo, ma tende all’escaton. Questa prospettiva della speranza escatologica non é un’evasione dalla storia, ma ha le sue radici nella prassi storica e l’incidenza sulla situazione politica e sociale. Essa diventa così la chiave dell’esistenza umana orientata al futuro, mediante la trasformazione del presente, perché la vera generosità verso il futuro consiste nel dare tutto al presente.
Il paradosso della speranza è quello che fa il poeta C. Pegúy mettere nelle labbra di Dio queste parole: «la fede che io preferisco – dice Dio – è la speranza». Per questo, la speranza compie una funzione dinamica e liberatrice nella storia, reale e profonda. Secondo il poeta, Dio non si sorprende con la fede, con la carità, ma con la speranza. La speranza, che sembra essere condotta dalle sue due sorelle maggiori, la fede e la carità, è in verità quella che le conduce.
Chi ha uno sguardo di fede e di speranza, lotta con amore per la giustizia, per la pace, per la dignità della persona, per l’equilibrio della natura, per un progresso e una liberazione integrale, lavora per i valori del Regno nei limiti della storia, nella certezza che rimangono per sempre.
La virtù teologale della speranza deve essere visibile, vissuta, trovare un dove, un luogo: altrimenti è illusione e retorica! L’impressione è che oggi il nemico della speranza sia l’indifferenza, il non-senso o quanto meno l’irrilevanza del senso. Agostino dice che «è solo la speranza che ci fa propriamente cristiani».
Il cristiano narra perciò la propria speranza con il perdono, attestando che il male commesso non ha il potere di chiudere il futuro di una vita; narra la speranza plasmando la sua presenza tra gli uomini sulla fede, e che l’evento pasquale esprime nella volontà divina di salvezza di tutti gli uomini (1Tm 2,4; 4,10; Tt 2,11); soprattutto narra la speranza vivendo la logica pasquale. Quella logica che consente al credente di vivere nella fraternità con persone che lui non ha scelto; che lo rendono capace di amare anche il nemico, l’antipatico, chi gli è ostile; che lo porta a vivere nella gioia e nella serenità anche le tribolazioni, le prove e le sofferenze; che lo guida al dono della vita, al martirio.
Se dobbiamo vedere oggi nella chiesa delle autorevoli narrazioni della speranza cristiana è proprio alle situazioni di martirio e di persecuzione che dobbiamo guardare. Lì la speranza della vita eterna, della vita in Cristo oltre la morte, trova una sua misteriosa, inquietante ma concretissima e convincente narrazione.
Se i migranti e tutta la Chiesa fossero sostenuti da questa esperienza spirituale impregnata di speranza, potrebbero camminare fiduciosi, come se stessero vedendo l’invisibile (Eb 11,27) e divenire un «segno vivo di una vocazione eterna, impulso continuo a quella speranza che, additando un futuro oltre il mondo presente, ne sollecita la trasformazione nella carità e il superamento escatologico» (EMCC,18).